Handbook_Volume III

20 ne non potrà essere esaustiva di tutti gli eventi e i risultati che l’hanno prodotta. Cercheremo di ripercorrerla seguendo un criterio temporale suddiviso per decadi, tra loro arbitrariamente distinte per omologia di ricerca, considerando momenti di cesura quelli rappresentati da acquisizioni particolarmente significative per gli indirizzi futuri. Dal 1950 al 1970 Corre obbligo ricordare quanto la ricerca clinica e di laboratorio sul TCSE sia storicamente correlata all’inizio dell’era nucleare, dalla quale ha ricevuto un impulso particolarmente importante. Infatti, dopo quanto tragicamente osservato a Hiroshima e Nagasaki nel 1945 in conseguenza dell’esplosione della bomba atomica, il Dipartimento della Difesa americano promosse energicamente quegli studi la cui finalità ultima fosse la ricerca di terapie che potessero essere curative dei danni devastanti e irreparabili indotti dalle radiazioni ionizzanti. Non è infatti casuale se molti laboratori dedicati alla ricerca sui trapianti e le cellule ematopoietiche siano inizialmente sorti, sia negli USA che in Europa, a fianco di Centri di Radiobiologia. Nell’ambito della ricerca di laboratorio sono considerati seminali gli studi condotti su modelli murini da Jacobsen et al. nel 1949, nei quali veniva dimostrato come la protezione splenica da una irradiazione corporea totale (TBI) e sovramassimale permettesse la ricostituzione ematopoietica [1], che Lorenz et al. nel 1951 dimostrarono di poter ottenere in topi e guinea pigs anche dopo infusione intraperitoneale di cellule spleniche o di midollo osseo [2]. L’ipotesi “umorale” dedotta da tali studi, per la quale la ricostituzione ematopoietica sarebbe stata indotta per stimolazione midollare da parte di un qualche fattore circolante, venne presto accantonata dopo gli studi di Barnes e Loutit, che, dopo infusione di cellule spleniche e midollari, proposero l’ipotesi “cellulare” della ricostituzione [3], e gli esperimenti di Main e Prehn, nei quali si dimostrava, anche al di là della barriera di istocompatibilità, la persistenza di un trapianto di cute del donatore in topi irradiati letalmente e ricostituiti dopo infusione di cellule midollari dello stesso donatore di cute [4]. La conferma dell’ipotesi “cellulare” venne infine dagli studi di Ford et al., che nel 1956, sempre su modello murino, dimostrarono chiaramente, su base citogenetica, le cellule midollari come di origine dal donatore, introducendo così il concetto di ”chimera” post trapianto [5]. Il tentativo di trattare la leucemia nel topo con TBI sovramassimale ed infusione di cellule midollari da donatore, descritto da Barnes et al. nel 1956 [6], fu di riferimento per ED Thomas per trasferire questa esperienza in ambito clinico e trapiantare pazienti con leucemia in fase avanzata. Tuttavia, solo i rari trapianti da gemello monocoriale presentarono sul breve follow-up un decorso clinico favorevole in termini di attecchimento e controllo delle complicanze, anche se non sul controllo della malattia [7, 8]. Al tempo di queste prime esperienze cliniche e a differenza che nel topo, il cui sistema H2 di istocompatibilità, con le implicazioni immunologiche che ne derivavano, si conosceva già dalla fine degli anni 40 [9], il sistema HLA dell’uomo attendeva ancora di essere identificato, cosa che avverrà nel 1958 per merito di J Dausset, premio Nobel nel 1980 [10] e JJ van Rood [11]. Ancor più tempo sarà richiesto perché, per la determinazione antigenica del sistema HLA con il suo ampio polimorfismo, tecniche adeguate, validate e impiegate di routine fossero messe a punto e potessero essere di guida nella scelta del donatore. Pertanto, alla fine degli anni 50 e ancora negli anni successivi, i tentativi clinici, sebbene molto informativi, rimanevano particolarmente scoraggianti. Tra questi sono da ricordare le prime esperienze, riportate da Mathé et al., che, a seguito di incidente nucleare, eseguì, senza successo, il trapianto allogenico su alcuni pazienti, che risollevò comunque l’attenzione internazionale verso il campo del TCSE [12]. Mathé per primo descrisse l’attecchimento, il chimerismo, lo stato di tolleranza e l’eventuale effetto anti-leucemico in un successivo paziente trapiantato da fratello per leucemia acuta, per il quale venne per la prima volta introdotto il concetto di “immunoterapia adottiva” che tanta fortuna avrebbe avuto in seguito [13]. Di un quadro scoraggiante in termini di risultati clinici è testimone la survey retrospettiva di MM Bortin riportata nel 1970, nella quale nessuno dei 200 trapianti eseguiti negli anni 50 e 60 fu coronato da successo. Mentre la clinica era in chiaro affanno nella ricerca di una sua strada, ulteriori, fondamentali acquisizioni provenivano dalla ricerca di laboratorio sui modelli animali. Tra queste, di rilevanza maggiore fu l’osservazione di quella che, inizialmente chiamata “secondary disease” [3] o “runt disease” [14], venne poi identificata e dettagliatamente descritta da Billingham e Brent nel 1966 e da van Bekkum e de Vries nel 1967 [15, 16] come Graft versus Host Disease (GVHD). Le osservazioni e i concetti allora elaborati e dai quali derivò la definizione nosografica di GVHD sono riassumibili nei seguenti punti: 1) cellule da donatore singenico non determinano “runt disease”; 2) è necessario una persistenza di cellule allogeniche nel ricevente perché si sviluppino manifestazioni di “runt disease”; 3) il grado di differenza antigenica tra donatore e ricevente è correlato con l’incidenza e la gravità della “runt disease”; 4) uno stato di tolleranza immunitaria nel ricevente può stabilirsi anche in assenza di “runt disease”; 5) la gravità della “runt disease” aumenta per sensibilizzazione delle cellule del donatore dopo esposizione a cellule del ricevente. Per la significativa ricaduta clinica che avranno successivamente, al capitolo della GVHD vanno poi intestati gli studi di Uphoff e Lochte, per i quali la somministrazione di methotrexate (MTX) dopo trapianto risultava efficace nel prevenire o contenere la GVHD [17, 18]. Sebbene il modello murino sia stato a lungo di riferimento, il cane come modello animale di studio è stato a sua volta largamente impiegato, soprattutto dal gruppo di Seattle, per numerosi studi sperimentali sia per l’alta affinità del suo sistema di istocompatibilità (DLA) con quello umano (HLA), sia per i costi più contenuti e gestione meno impegnativa rispetto a quello dei primati non umani.

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