Handbook_Volume III

187 3. Terapie di supporto Nel 2014 il GITMO pubblicava raccomandazioni sulla profilassi delle infezioni fungine nel trapianto allogenico di CSE tenendo conto anche dei risultati dello studio epidemiologico prospettico condotto nel periodo 20082010 nell’ambito dei centri GITMO (38). Nel 2018 un gruppo di lavoro di esperti europei dell’ECIL ha pubblicato una revisione delle raccomandazioni sulla profilassi delle infezioni fungine sia nel trapianto autologo che allogenico già pubblicate nel 2011 (40). Nella tabella 2 sono sintetizzate le raccomandazioni del GITMO e dell’ECIL. La decisione sull’inizio di una profilassi antifungina primaria e sulla scelta della molecola antifungina dipende dal livello di rischio determinato da vari fattori inerenti il tipo di trapianto, lo sviluppo di complicanze e la fase post trapianto. Come indicato dalle linee guida ECIL pubblicate nel 2016 (41) la profilassi antifungina deve considerare anche lo Pneumocystis jirovecii per il quale il farmaco di prima scelta e il trimethoprim-sulfametossazolo (2-3 volte a settimana) a partire da un mese dopo il trapianto e fino ad almeno un anno dopo il trapianto o fino alla sospensione del trattamento immunosoppressivo. Un criterio che viene adottato da alcuni centri è il raggiungimento di almeno 200 linfociti CD-4 per mmc stabile da almeno sei mesi. Nei pazienti per i quali è controindicato l’uso di trimethoprim-sulfametossazolo possono essere impiegati atovaquone, dapsone o pentamidina aerosol. 4. La profilassi delle infezioni virali nel trapianto di CSE Le strategie di prevenzione farmacologica delle infezioni virali dopo trapianto di CSE riguardano essenzialmente i virus epatitici e alcuni virus herpetici, mentre per altri virus che possono causare gravi infezioni soprattutto dopo trapianto allogenico di CSE, come adenovirus, virus influenzale, altri virus respiratori e poliomavirus, non esistono al momento trattamenti farmacologici efficaci in profilassi. Il rischio di riattivazione di infezioni da virus dell’epatite B (HBV), dell’epatite C (HCV) ed altri virus epatotropi è variabilmente elevato dopo trapianto di CSE e dipende da vari fattori correlati all’assetto siero-virologico, alla storia clinica del paziente prima del trapianto, alla tipologia di trapianto e alle eventuali complicanze post trapianto. Come conseguenza della profonda e prolungata immunosoppressione correlata alla stessa procedura trapiantologica e alla ricostituzione del sistema immunitario, soprattutto dopo trapianto allogenico di CSE, il rischio di riattivazione di HBV e di conseguenti gravi malattie epatiche è molto elevato nei pazienti HbsAg positivi se non in trattamento antivirale. Il rischio di riattivazione di HBV è maggiore anche nei pazienti HbsAg negativi e anti-HBc-positivi e può protrarsi anche vari anni dopo il trapianto. Gli analoghi nucleosidici come lamivudina, entecavir e tenofovir sono largamente impiegati in terapia soppressiva secondaria con indicazioni legate anche alle caratteristiche farmacologiche dei vari antivirali e con schemi di trattamento comuni a molte altre categorie di pazienti immunocompromessi. Per dettagli sui trattamenti antivirali di HBV, HCV ed altri virus epatitici si rimanda a linee guida dedicate a pazienti ematologici e sottoposti a trapianto di CSE (42,43). Relativamente ai virus herpetici, da anni vengono impiegate efficaci profilassi con farmaci attivi verso Herpes simplex Virus (HSV), Varicella zoster Virus (VZV) e citomegalovirus (CMV), mentre per Human Herpes Virus 6 (HHV6), HHV7, HHV8 ed Epstein Barr Virus (EBV) non esiste una strategia di prevenzione primaria o secondaria basata sull’uso di molecole con attività antivirale (44,45). Oltre l’80% dei pazienti adulti in Italia sono sieropositivi per HSV e manifestazioni herpetiche cutanee o mucose si osservavano in circa il 70% dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico di CSE non in profilassi antivirale. L’infezione deriva prevalentemente da una riattivazione virale secondaria e solo in una minoranza di casi come forma primaria. I soggetti sieropositivi per VZV sono a rischio di sviluppare manifestazioni cutanee anche molto estese ed aggressive nel 20-50% dei casi quando non sottoposti a profilassi farmacologica (46). L’ infezione da CMV, definita come rilevamento di CMV DNA nel sangue (DNAemia), rappresenta una frequente complicanza in varie categorie di pazienti ematologici e può evolvere in malattie d’organo potenzialmente fatali (47,48). La maggiore rilevanza clinica si osserva nei soggetti sottoposti a trapianto allogenico di CSE nei quali l’incidenza di infezioni da CMV è direttamente correlata allo stato sierologico del ricevente e del donatore. Nei riceventi sieropositivi il rischio di riattivazione dell’infezione da CMV, e di conseguenza della malattia d’organo, è particolarmente elevato superando il 70% dei pazienti non in profilassi CMV specifica con letermovir, questo soprattutto quando il donatore è sieronegativo. Al contrario, nei riceventi sieronegativi il rischio di infezione da CMV è notevolmente inferiore, quasi assente se anche il donatore è sieronegativo ed il paziente viene trasfuso con prodotti ematici trattati per eliminare cellule potenzialmente veicolo di CMV o con prodotti da donatori sieronegativi. La rilevanza clinica delle infezioni da CMV dopo trapianto allogenico di CSE, che richiedono attento monitoraggio, trattamento e prevenzione, non è solo correlata alla morbilità della eventuale malattia virale, ma deriva soprattutto dal fatto che l’infezione virale ed il suo trattamento possono impattare negativamente in un delicato ciclo biologico che coinvolge l’attecchimento del trapianto, la Graft Versus Host Disease, la terapia steroidea ed il rischio per altre infezioni opportunistiche batteriche e fungine. Una riattivazione citomegalica non adeguatamente controllata può scatenare varie altre complicanze dopo il trapianto con esito anche fatale. Fino all’avvento del letermovir il controllo delle infezioni da CMV era rappresentato essenzialmente dalla strategia di terapia pre-emptive basata sul rilevamento della CMV DNAemia in quanto i farmaci antivirali impiegati in passato, in particolare aciclovir e valaciclovir ad alte dosi, non hanno dimostrato di essere efficaci nella prevenzione della riattivazione virale. L’impiego in profilassi di vecchi farmaci attivi verso CMV come ganciclovir o valganciclovir è stato sperimentato in passato ma presto abbandonato soprattutto in considerazione della tossicità di tali farmaci che non si prestano per una somministrazione prolungata soprattutto nelle fasi di attecchimento.

RkJQdWJsaXNoZXIy ODUzNzk5